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Venezia 79: The Whale, di Darren Aronofsky

Charlie è intrappolato nel proprio corpo a causa di una grave forma di obesità e conduce la propria vita al limite all’interno di un casa zeppa di oggetti e voluminosa come il corpo nel quale si trova a vivere.

È destinato a morire ma i pochi giorni che gli restano saranno accompagnati da una vitalità che emerge per affrontare i rimpianti, i non detti, e i sentimenti di un’esistenza divenuta un calvario.

Il corpo di Charlie è un peso eppure è lui a scusarsi col prossimo, a mostrare piccole accortezze di attenzione, che sia con gli studenti, col predicatore che bussa, con l’infermiera Liza o con la ritrovata figlia.

The Whale si svolge dentro un unico luogo: la casa è l’unico spazio per Charlie dove essere senza maschere, sincero ma al tempo stesso in esilio; se il suo corpo è martoriato non lo è la sua mente, attiva e pronta ad un’ultima avventura.
Per quanto circoscritto, The Whale è un film mai statico: porte che si aprono, memorie che riemergono, persone che entrano, alcune si fermano alla soglia della porta come il mondo che Charlie tiene fuori, altre ritornano, alcune restano, altre ancora mostrano resistenza.

Branda Fraser tratteggia con misura e umanità un uomo ferito nell’anima, spezzato dentro ancora prima che falcidiato nella carne.

Ciò che rimane è solo la ricerca di una verità nei rapporti umani che abbatta le resistenze, il fim lo fa con una poetica dei sentimenti più autentici, fragili e potentissimi.
Attraverso la scrittura Aronosky riesce a prendere il ripugnante e il respingente per mostrare l’amore, il pentimento, la tenerezza, facendo emergere l’enorme balena bianca che è dentro di noi, la più imperscutrabile e umana che ci sia.

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