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Torino36: convince con Ride l’esordio alla regia di Mastandrea

Surreale e realtà si fondono in Ride, il film d’esordio di Valerio Mastandrea. Carolina ha da poco perso il marito, la sua reazione al lutto è anonima: lei ci prova, prepara i fazzoletti, mette la loro canzone preferita, si predispone anche come postura ma proprio non ce la fa, le lacrime e la sofferenza non si avvertono sul corpo androgino eppure estramamente femminile. Il figlio di dieci anni Bruno, invece prova insieme ad un amico le risposte da dare ai possibili giornalisti che si presenteranno a Nettuno per il funerale del padre. Per tre quarti di film la cosa non viene esplicitata ma é talmente chiara che questa improvvisa perdita è una morte bianca, da fabbrica.
Se Carolina non soffre, sono gli altri a riversare in maniera farsesca il dolore per la morte di Mauro: una vecchia fiamma, due amici che si stanno lasciando, prendono possesso sul divano di casa di un dolore che in primis apparterebbe a lei. Tutti o quasi, perché sulla spiaggia di Nettuno ci sono altri che aspettano il giorno del funerale, vecchi amici e un silenzioso uomo che senza doverlo spiegare sappiamo che è il padre del defunto.

Ride è un film che usa il bizzarro senza voler ingraziarsi il pubblico, gioca con l’ immaginazione per raccontare con naturalezza un dramma che resta silente, nascosto dietro buffi atteggiamenti o reiterate azioni. È una regia priva di trucchi quella di Mastandrea, capace di valorizzare una maniera di esprimere il lutto e le emozioni non convenziale, di mantenere un ordine visivo anziché estremizzare gli eventi mostrando un’identità forte anche nella scelta e nella raffigurazione della protagonista, un personaggio che ricorda a tratti molti ruoli disancantati dell’attore romano.

Un altro esordio alla regia, WildLife di Paul Dano ci porta invece nel Montana degli anni sessanta. Un 15enne si è nuovamente trasferito per seguire il lavoro del padre. Un lavoro che in poco tempo il padre perde e cosi la più risoluta mamma Jean prende le redini del nucleo familiare mentre il capo famiglia è restio ad accettare un lavoro da adolescente in un supermarket. Il giovane che per espressioni e scarsità di linguaggio ricorda molti tratti del Paul Dano attore, osserva e assorbe gli eventi prima ancora che gli adulti ne prendano coscienza. I boschi del Montana infiammano e si cercano volontari per spegnere le fiamme. Orgoglioso, ostinato o semplicemente un uomo alla ricerca della sua personale dignità Jerry accetta di partire. La moglie, lontana fin ad allora dall’ immagine non convenzionale di una donna casa e fornelli accetta le attenzioni di un vecchio uomo, ex veterano di guerra. L’integrità e la problematicità si tramutano velocemente in subordinazione del proprio io.

Prima che sulle montagne del Montana il ragazzino vede divampare l’incendio all’interno dei suoi affetti più cari, è disorientato ma non scappa, accetta gli eventi diventando più pragmatico e sicuro di quanto non sia sua madre. Paul Dano rappresenta tutto ciò con una regia solida, priva di virtuosismi, efficace nel mostrare i turbamenti di individui mai a loro agio col loro tempo.

Il tema della reazione al dolore dopo Ride ritorna nel greco OiktosPity. Un avvocato benestante vive sospeso prendendosi cura del figlio mentre la moglie è in coma in ospedale e pare non ci sia più nessuna speranza. La vicina gli prepara spesso una torta di zucca, il proprietario della lavanderia entra in empatia col suo dolore. Sempre con la testa china e molte volte inquadrato di profilo quest’uomo che assomiglia molto al papà di Jim di American Pie ma contrariamente a quel personaggio non è per niente divertente, inizia a compiacersi del cordoglio e delle attenzioni altrui. Ormai si è adattato ad una realtà di oblio interiore; l’improvviso risveglio della moglie lo destabilizza facendogli perdere ogni certezza. Più che la sofferenza anela il compatimento, parla della propria metà come se fosse ancora in fin di vita continuando a mettere in atto dei siparietti comici e al tempo stesso serissimi. Scritto dallo sceneggiatore di Lanthimos, Pity porta avanti fino ad estreme conseguenze la sublimazione della morte da parte di un individuo incapace di alzare la testa vivendo i cambiamenti.

Essere ingabbiati anche quando si avrebbe la possibilità di vivere senza responsabilità. È ingabbiata la Elisa di Marche ou Crève che ha rinunciato alle proprie aspirazioni per aiutare il padre nel gestire la sorella Manon affetta da una grave durabilità. La vita che immaginava è ormai racchiusa in spazi ristretti seguendo tempi e ritmi di una sorella ingombrante. Come in un limbo Elisa è schiacciata e vorrebbe uscire da una scatola di un dovere che si autoimposto, e invece resta lì continuando a reprimere un desiderio di evasione che non riesce a far suo. Una scalata (non solo simbolica) verso l’affermazione di sè impervia e frustrante come le necessità di Manon. Un’opera prima magnetica sul tema della malattia trattato con grande maturità: sorprende la naturalità con cui la regista riesce a cogliere la faticosa quotidianità di padre e figlia nel venire incontro alla gestualità ingarbugliata ed irritante di Manon.

Non ci si imbatte in nessuna forma di pietismo, i lamenti di Manon sono fastidiosi da sopportare ma li accetti perché servono a capire cosa portarsi dietro da un banale e ripetuto giro in macchina.

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