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“Il Filo Nascosto”, una ricetta per l’Amore.

Se dovessimo provare ad organizzare idee ed pensieri intorno all’ultimo lavoro di Paul Thomas Anderson, Phantom Thread, dovremmo partire dai concetti base dell’orchestrazione musicale e dal percorso di indagine psicologica che il regista conduce già da diverso tempo (Il Petroliere e The Master su tutti, come del resto in Vizio di Forma e Magnolia).

Phantom Thread (Il Filo Nascosto)

Il Filo Nascosto, questo il titolo italiano, stupisce per il tentativo di riuscire a stare in equilibrio nelle sue parti, partendo proprio dallo squilibrio come condizione inevitabile. Similmente alla musica, la tensione della dissonanza porta alla consonanza, con l’accordo di dominante che costituisce l’elemento “indifeso e vulnerabile” necessario per rendere appieno l’effetto di quiete e distensione della cadenza sull’accordo di tonica successivo.

Il soggetto, la sceneggiatura, la fotografia, la parte musicale (per mano del suo “fido” Jonny Greenwood), la parte attoriale (attraverso il suo attore feticcio Daniel Day-Lewis), la parte registica sono perfettamente orchestrate da Paul Thomas Anderson. Un lavoro che prosegue l’indagine all’interno delle passioni dell’animo umano, in uno stile che tende ad isolare i personaggi ed il mondo narrato rispetto all’esterno.
Un ritmo composto, misurato, fotograficamente delicato, realista, mai violento, eppure inquietante. Una musica che si accorda perfettamente a questa idea, un impianto classico, tradizionale, ma con tempi dispari, elementi fuori “contesto”, suoni e rumori che determinano un “disturbo”. Un disagio che accompagna lo spettatore nel dipanarsi della narrazione, nello sguardo sul mondo del protagonista, nel desiderio della sua modella “perfetta” di riuscire a vivere l’amore “alla sua maniera”, in una dimensione anche intima, quotidiana, reale.

Vicky Krieps e Daniel Day-Lewis

Ma la realtà non appartiene al protagonista, Reynolds Woodcock, che vive e comunica solo attraverso la distanza del tessuto, attraverso lo sguardo concentrato sulle misure e le cuciture degli abiti che produce nel suo atelier. Egli vive immerso nella sua dimensione, producendo abiti per le migliori clienti della borghesia europea del secondo dopoguerra. Ogni singolo elemento si incastra nel suo ritmo quotidiano, che favorisce la sua creatività ed il suo slancio artistico. L’incontro con Alma, che diverrà sua musa ispiratrice e modella dei suoi abiti, sembra aprire verso una evoluzione di Reynolds, che però si mostra sempre più distaccato ed indolente con l’accrescere del sentimento amoroso di Alma. I grandi sorrisi e le complicità emergono solo attraverso il linguaggio del tessuto, mentre nei momenti quotidiani cresce l’insofferenza ed il fastidio per ogni più piccolo gesto della ragazza, come versare il tè nella tazza, o venire “distratto e snaturato” dai riti giornalieri a causa di un gesto di affetto.

E se lo spettatore si lascia trasportare da questo gioco armonico ed allo stesso tempo dissonante di atmosfere, abiti, musiche e scelte fotografiche del film, senza comprendere appieno il concetto intorno al quale Anderson costruisce tutta la narrazione, ad un certo punto si troverà avvolto da un mondo, quello di Woodcock, spigoloso e senza uscita. Lo capisce bene Alma, che esasperata troverà un modo per lanciare un messaggio di aiuto e provare a ristabilire un equilibrio che sembrava perso.

La “ricetta” dell’amore.

Il disperato segnale produce l’effetto sperato, e mostra uno spiraglio. Una ricetta per l’Amore. Una risposta surreale e provocatoria all’interrogativo su se sia possibile poter “ricucire” completamente un rapporto che nel tempo si consuma, si lacera, si strappa, ritrovandone l’armonia in una sorta di naturale ciclicità.
Equilibrio e disequilibrio, armonia e dissonanza. Elementi sui quali P.T. Anderson costruisce questo film, altro punto di passaggio imprescindibile nel percorso artistico di questo grande regista.

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