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Venezia 79: White Noise, di Noah Baumbach

Dopo l’apprezzato Marriage Story, Noah Baumbach torna al lido in concorso con White Noise.

Questa volta il regista non attinge al suo vissuto ma si basa sull’omonimo romanzo di Don DeLillo per mettere in scena il racconto funambolico e tormentato di una famiglia americana del Midwest nel pieno del progresso capitalista.

Non sarà autobiografico ma Baumbach si affida all’attore fedele (Adam Driver) dei suoi ultimi lavori, accompagnato dalla compagna del regista (Greta Gervig). Sono loro ad impersonare Jack Gladney, un professore di studi letterari hitleriani e la moglie Babette, entrambi hanno diversi matrimoni alle spalle così come sono diversi i figli della famiglia.

Le contraddizioni della società americana sono la base di White Noise: la percezione degli altri sulle nostre persone, i segreti celati, i timori e la speranza accompagnano esistenze apparentemente idilliache.
Tra ironia, drammaticità e suspense White Noise mette in mostra il concetto di famiglia come “culla della disinformazione mondiale”, così mentre i grandi sono distratti da propositi autocompiacenti o nascondono ferite interiori, sono i figli, specie Denise, a guardare oltre la superficialità e la pigrizia dei grandi.

Quando un incidente tossicco scombussola e minaccia le vite tranquille della cittadina, saranno soprattutto loro i più risoluti, concreti nell’agire e nel mettere a nudo le negligenze e le paure degli adulti.

È qui, dal pretesto dell’incidente tossico, che White Noise sembrava poter prendere una direzione nuova, che andasse oltre il sussegguirsi tipici baumbachiani di pensieri e voci sovrapposti, monologhi e dialoghi grotteschi e satirici, tanto riusciti quanto inutilmente iperbolici.

Non è in discussione la capacità degli interpreti nel dare verve ai personaggi quanto l’assenza di un respiro più ampio che tenesse davvero conto del contesto e delle sue sfumature nei quali agiscono. A Baumbach bastano i suoi personaggi, una fedeltà che a dispetto di altre opere penalizza White Noise, impedendo di esprimere al meglio i temi presentati, mostrandoci indivui in qualche maniera “estranei” e focalizzati solo su di sè, in un continuo ripetersi anomalo dove le luci e i colori accentuati del supermaket sono l’approdo più confortevole (e fugace).

 

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