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Torino37: la vita come esperienza collettiva, Ms. White Light e Beats

La vita non per tutti è un’avventura straordinaria, per molti è routine, solitudine e supplizio. Ms White Light di Paul Shoulberg è un cancer movie sui vivi, non sui morti o su chi sta per andarsene, su chi non sopporta vivere, è anaffettivo e disilluso. Protagonista è Lex, specializzata nel dare conforto ai malati terminali sopperendo alle mancanze di figli, nipoti e parenti vari, troppo spesso inadatti a restituire un affetto e una vicinanza che questa cinica ragazza riesce a donare ai suoi clienti in poche settimane e ore.  Nell’attività gestita insieme al padre Lex si connette in modo naturale con i sentimenti altrui manifestati negli ultimi istanti di vita regalandogli “un breve conforto esistenziale”.

Più difficile interagire con gli altri, i familiari e i loro sensi di colpa. Una situazione che si complica quando due clienti scuotono Lex dall’ apatia che la contraddistingue. Un’adolescente e una donna anziana metteranno in discussione lo stato dell’emotività repressa della ragazza. Shoulberg imbastisce un film  su personaggi insoliti fondendo humour e dramma nel percorso di accettazione di un trauma da elaborare: c’è il dramma della perdita e c’è lo sconforto di un presente avaro di bellezza.

Ms. White Light punta tutto su questa dicotomia, la vita e la morte come pagine di un racconto che Shoulberg mette in scena attraverso dialoghi asciutti. Al netto di una scenografia anonima e di tonalità opache Ms. White Light riesce a coinvolgere ed emozionare per come affronta il tema della morte, facendo dei comprimari il “mezzo” per inquadrare la protagonista e i suoi pensieri. Arrivare a trovare un senso al viaggio non alla fine ma durante, quando si ha ancora la coscienza di comprendere chi siamo e dove vogliamo approdare.

Una maniera diversa di tratteggiare le sfumature della malattia e più in generale del senso di inquietudine che fa sentire i vivi come oggetti spezzati e stanchi.

 

Il Criminal Justice Act è una legge inglese del 1994 che vietava raduni di persone in cui ci fosse come scopo quello di ascoltare musica che fosse caratterizzata dalla diffusione di ritmi ripetitivi, appunto i beats del titolo del nuovo film di Brian Welsh.

Due adolescenti diversissimi ma uniti in maniera viscerale come fratelli, esprimono nel loro percorso di crescita la voglia di cambiamento di una generazione, il rifiuto delle autorità, dello loro catene mentali da saldare su una società che vuole atrofizzare la vitalità di chi non accetta un copione già scritto.

Metafora di questa lotta tra vecchio e nuovo un bianco e nero senza tempo che suggella il desiderio di autodeterminazione contro l’oppressione di uno stato conservatore e ipocrita nelle sue contraddizioni. Un ambiente degradato, i capelli sbagliati del miglior amico sono il male a cui viene contrapposta la possibilità di una nuova casa, una scuola migliore, degli amici più rispettabili. Cambiare per restare indietro in un mondo che resta fermo, proibisce i raduni, mette etichette ed usa il manganello al posto delle parole.

Beats è un film vibrante, pulsante più nei simboli che nello stile registico, sporco e irrefrenabile come una mandria libera (di ballare ovunque e quando vuole).

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