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Noi

Noi, di Jordan Peele

In un film dove la suspense è un fattore che non tramuta mai in esagerazione ma è ponderata per mantenere costante uno scenario sinistro e in continua definizione, il twist finale di Noi rende la visione e la sua assimilazione ancora più sconcertante. Per almeno metà del racconto Noi sembra restare sul terreno dell’horror, un genere che Jordan Peele destreggia costruendo, come già dimostrato in Get Out, tempi e modi non convenzionali per mettere in scena il terrore o l’inaspettato.

Sta tutto nell’ottica di come percepiamo noi stessi e osserviamo ciò che ci circonda: la protagonista trasmette conflitto e distanza quando si appresta a trascorrere le vacanze estive nel luogo dove da piccola aveva subito un trauma che pare non averla lasciata, così che in pieno giorno una spiaggia sconfinata e bianchissima può risultare inospitale e minacciosa. Proprio lì, sempre a Santa Cruz, nel 1986, entrava in una foresta degli specchi che sull’insegna recitava “trova te stesso”, e oltre al proprio riflesso si imbattè in una bambina in carne ed ossa identica a lei.

Qualche decennio dopo quel doppio si ripresenta nella sua vita dinanzi al vialetto di casa, dove si tiene per mano con altre tre persone, la copia esatta e meno evoluta della sua famiglia. Sorpresi positivamente dall’intreccio mentale che dava forza a Get Out, prima che il faccia a faccia tra le due famiglie si materializzi era lecito attendersi che il film si evolvesse rimodellando comportamenti e sensazioni del genere. Invece l’emergere dall’oscurità delle proprie ombre si tramuta per almeno due atti di Noi in una lotta, comunque ben realizzata e non banale, per la sopravvivenza. Che la questione razziale non veicolasse il racconto era chiaro sin dall’inizio ( i protagonisti  sono una famiglia medio-borghese), solo quando la famiglia chiede aiuto ai propri “amici” Noi comincia a svelare altro diventato audace, metafisico e persino filosofico mettendo in discussione l’esistenza stessa del mondo che conosciamo e della vita che conduciamo.
Già nel prologo Jordan Peele aveva presentato tutti gli indizi che danno sostanza all’evolversi della narrazione, erano lì sotto i nostri occhi come l’infinità di chilometri, ed è sempre il regista a dircelo, di tunnel, strade e metropolitane abbandonate, sacrificate o dimenticate in nome di un progresso che non sempre riflette sui reali bisogni di tutti. Anche mentre tentiamo di difendere ardentemente il nostro mondo e i nostri comfort non ci fermiamo a domandarci se “noi” siamo meglio di “loro”, arrivati a conquistare o semplicemente a rivendicare un’opportunità.

Come nel video-clip di Thriller, la cui maglietta è indossata dalla bambina che si aggirava silenziosa nel luna park di Santa Cruz in quella spensierata notte estiva del 1986, quando entrando nella foresta degli specchi trovò un’altra lei, Noi conduce la riflessione (inevitabilmente complessa) su un piano esistenziale, perchè come respingevamo gli zombie malconci e sgraziati di Thriller che attraverso il ballo esprimevano sé stessi, schiacciamo la parte animalesca, imperfetta e non convenzionale di noi stessi, e allora Noi spiazza e inquieta perchè più di Get Out non mostra il male, ma ci infastidisce perchè ribalta la prospettiva: chi è che indossa davvero una maschera, cosa guardiamo nello specchio e cosa ci provoca il proliferarsi dei doppelgänger?

 

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