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Aquaman

Aquaman, di James Wan

Ci sono tantissime cose in Aquaman, un po’ come ce ne erano nel film più discusso dell’Universo DC al cinema: quel Batman v Superman che ancora oggi è capace di dare il via a stimolanti discussioni. L’incontro al cinema tra i due colossi del mondo dei supereroi oltre che essere carico di gravitas alimentava il dibattito intorno alla scrittura e alle conseguenti evoluzione narrative.
Nel sesto film di casa DC l’elemento scritturale è l’aspetto meno solido e ricercato di un film che dopo un lunghissimo viaggio porterà a plasmare un eroe che ha il volto ruvido di Arthur Curry (interpretato da un Jason Momoa che in pratica mette in scene se stesso), il mezzo uomo e mezzo atlantideo, conosciuto già in Justice League, riluttante a mostrare le sue abilità, fieramente tamarro e solitario, che aiuta gli altri, fa quello che deve fare e poi torna a bere birre in taverne o porti sudici.

Non è certo un cinecomic sofisticato il giocattolone che James Wan fa salpare verso gli oceani e il regno misterioso nonchè regale di Atlantide, un’antica civiltà fondata su leggi sacre, sprofondata per la troppa supponenza ma capace nei secoli di rinascere e restare isolata dal mondo in superficie. A differenza delle amazzoni di Themyscira il regno di Atlandide guidato da re Orm, il fratellastro di Arthur, è smanioso di mostrarsi al mondo, colpevole di inquinare e distruggere quotidianamente senza remore un ecosistema nobile. Aquaman è probabilmente il punto più alto della DC al cinema, ciò che doveva essere Justice League riunendo i suoi più valorosi eroi e per le note vicissitudini produttive non è stato. Un film con dei villain, anche se ormai è riduttivo definirli così anche per i cinecomic, realmente funzionali alla vicenda e con un delineato arco narrativo (in Aquaman ne abbiamo ben due: uno addiritura apre e chiude il film);  se in almeno tre dei titoli di casa DC i cattivi erano sostanzialmente un pretesto per mettere insieme degli alleati qui sono la spinta e la causa che mette in moto il protagonista, incapace di accettare la sua natura eppure chiamato ad essere il ponte tra un mondo complicato, la Terra (dove è cresciuto) e un altro, la civiltà di Atlantide che un po’ denigra perché lo ha privato di una madre, la regina Atlanna.

Aquaman

È un’avventura senza sosta tra regni marini, isole e deserti che James Wan conduce con ritmo e una spensieratezza che non si vedevano da tempo al cinema: l’architettura, la tecnologia, le creature marine che caratterizzano Atlantide sono una meraviglia estetica di colori che portano Arthur e lo spettatore in un paese dei balocchi mai visto prima, dove la suspense e l’equilibrio registico tanto cari alla saga di Conjuring lasciano spazio alla caciara e a combattimenti vibranti che per quanto esagerati vengono resi credibili e ben coreografati nell’esecuzione. Non ha il senso dell’epica di Snyder Wan e lo si vede quando specie nel primo atto inquadra i personaggi come fossero protagonisti di uno spot televisivo; il regista, già di Insidious, prende i simboli e i miti senza costruirvi attorno relazioni o messaggi intellettuali, bensì evoca quei miti attraverso una sorta di gioco, di grande caccia al tesoro.

In un film dove la cgi, il blue screen e tantissima acqua artificiale sono dominanti non sempre l’immagine è libera dalla sensazione di guardare il contesto come se fossimo realmente in un teatro di posa o all’interno di un videogioco e questo avviene quando l’azione si svolge sulla terra più che sott’acqua.
Al netto dei dialoghi spiccioli, Aquaman da il meglio quando le tenebre e il dramma conducono i personaggi a compiere scelte nette, sfuggendo tentennamenti e riflessioni, ed è anche qui che ritroviamo il James Wan di Conjuring, capace nei momenti più terribili di creare intimità tra gli individui, di far emergere coraggio e amore quando si è al limite e occorre mostrare la nostra forza, e di tale concetto Aquaman ne fa il vero motore del suo percorso: la forza (connessa all’egoismo) degli uomini nei confronti di ciò che li circonda, la forza della maree, la forza dal punto di vista corporeo che identifica meglio di tutti l’agire nonché il pensiero di Arthur Curry. Insomma ad una storia che narra di re e troni, leggende e tecnologie sbalorditive e che potrebbero, seguendo alcuni canoni essere trattate con tono aulico e fiabesco, il regista associa veemenza, furia e una vitalità strabordante anche nelle sfumature cromatiche realizzando un fantasy rockettaro.

Aquaman, infine, conferma il primato della DC sulla Marvel per lo spazio mai marginale riservato ai personaggi femminili. Prima dell’onda emotiva, effetto del Me Too, i film DC hanno trovato nell’universo femminile la coscienza e il pragmatismo quando la narrazione ha avuto bisogno di una guida o un cambio di passo.
Come nel caso di Mera in Aquaman, spetta alle donne consigliare con saggezza l’eroe maschile, prendere l’iniziativa, essere custodi di sentimenti e valori alti e in definitiva le uniche capaci di sostenere, non senza turbamenti, le scelte più dure dimostrando audacia e una visione sugli eventi a lungo termine.

 

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