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Applausi a Venezia75 per il regista marchigiano Roberto Minervini

Un Roberto Minervini da applausi qui al Lido, con pubblico e critica che riconoscono il grande lavoro del regista marchigiano per la realizzazione del suo “What You Gonna Do When The World’s On Fire?” (Che fare quando il mondo è in fiamme?).

La presentazione in sala Grande è stata accolta positivamente dal pubblico presente, e scopriremo sabato se anche la Giuria della Mostra, presieduta da Guillermo Del Toro, deciderà di premiare Minervini per il suo film. Un lavoro sicuramente molto intenso, che racconta senza filtro la realtà del profondo sud degli Stati Uniti, trattando un tema, quello della recrudescenza dell’odio razziale, che sta vivendo in questi ultimi anni episodi sempre più tragici ed inquietanti.

Un momento della conferenza stampa

Ne ha parlato il regista monturanese di nascita, ma americano d’adozione (vive ormai da anni a Houston, in Texas), in conferenza stampa, sottolineando i passaggi che hanno portato alla realizzazione di questo documentario.

«Il titolo – ci ha raccontato Minervini – proviene da uno spiritual di qualche secolo fa. Ancora più interessante era il verso in risposta alla domanda su che fare quando il mondo è in fiamme, ovvero “scapperemo”, il fuggire come unica soluzione alle fiamme. Questo mi interessava molto.
In realtà tutto è partito come un progetto musicale, scavando alle radici della musica, ma poi, frequentando il bar di Judy (una delle protagoniste del film) ho cambiato direzione, ho invertito la marcia e deciso di raccontare altre storie. Credo che questo film rispecchi l’urgenza che abbiamo sentito di raccontare queste storie, con in più una spinta personale a confrontarci con delle realtà così forti al punto da creare un un senso di ora o mai più, e lo abbiamo voluto fare nonostante mille difficoltà organizzative. Abbiamo iniziato a lavorare al progetto sin dal 2015, e gli omicidi di alcuni neri americani in diversi Stati d’America fecero emergere lì la paura dell’uomo di colore, e pensai che ci fosse il momento giusto per raccontarlo».

Fatica a trattenere le lacrime Roberto mentre racconta di alcuni momenti vissuti con la troupe, che lui considera alla regia accanto al suo nome, sia per il livello di condivisione e di affiatamento che ha permeato tutte le riprese, sia per l’approccio emotivo che li coinvolgeva, anche nelle situazioni più rischiose.
«Ci sono stati momenti in cui ci sparavano addosso, io ero a terra e si continuava a girare. Non è solo il mio film, ma di tutta questa gente che lavora in squadra con me. Un cinema di vita, una roba grossa».

Judy Hill

Ne scaturisce un film molto intenso, magistralmente montato da Marie-Hélène Dozo, collaboratrice storica di Minervini, in un bianco e nero voluto fortemente perché «serviva a dare equilibrio alle diverse storie ed ai diversi contesti, visto che provenivano da situazioni molto differenti tra di loro, ed anche per l’aspetto temporale della storia, che racconta non la mia storia, ma quella dei protagonisti. La scelta del bianco e nero è un modo per far parlare le storie, facendomi da parte, con una presenza meno invasiva possibile».

Non è stato facile tra l’altro per Minervini trovare da subito una produzione che credesse nel progetto.
«Finanziarlo è stato molto difficile, anche perché non è un progetto scritto. Ci è voluto molto tempo, moltissime ore di riprese, con un modo di lavorare molto collaudato, sapendo in partenza che c’è molto da girare per arrivare ad estrarre quei momenti così veri da sembrare fiction. Noi andiamo a riprendere ciò che è scritto in natura, non sulla carta.
Senza la Rai questo progetto sarebbe morto, non pensavo che dopo 4 film fosse ancora così difficile far partire un progetto solo perché non è scritto a tavolino. Con me tra l’altro lavora una scrittrice sopraffina come la montatrice Dozo, che è riuscita in modo magistrale ad estrarre le due ore del film dal tantissimo materiale girato».

Minervini riserva infine parole speciali anche per le Marche, quando gli chiedono se si sente più un regista dallo stile italiano o americano.
«Sono prima di tutto un regista marchigiano, non puoi togliere le Marche a un marchigiano. Poi, certo, ho conosciuto l’Italia che parla italiano, quella di mondo, ma non appartengo a nessuna élite, nessun circolo. A volte sono stressato, non mi piace avere la vita invasa da estremisti di sinistra o paramilitari di destra, i personaggi dei miei film, non mi piace avere il telefono controllato dall’FBI. Ho scelto io però di raccontare gli ultimi, perché mi sento più vicino a loro. Perché le fiamme, viste dal basso, bruciano davvero».

Minervini ed i protagonisti del film

 

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